L' "io" e la felicità | Precedente |
Provo a rendere semplice un ragionamento un po’ complicato. Innanzitutto voglio parlare di un qualcosa di fisico e molto evidente: il mio corpo. Ho correttamente usato, come avrebbe fatto chiunque in qualunque parte del mondo, l’aggettivo possessivo “mio”. Però, quando possiedo una cosa non posso identificarla come se fosse tutto me stesso, cioè tutto quello che ho e che sono. Quando pronuncio il pronome personale “io” non posso di certo riferirmi solo al corpo. L’aggettivo possessivo, mai come in questo caso, unisce qualcosa che ho a qualcos’altro. Il corpo è magnifico, sorprendente e estremamente complesso ma da solo non avrebbe alcun senso né potrebbe rappresentare ed essere inteso come quello splendido mistero che è. La scienza sta studiando il DNA ma non ha ancora capito niente sul concepimento e di come due cellule possano diventare quattro e poi otto e poi sedici e poi trentadue e così via. Non ha ancora capito niente su come facciano strutture inizialmente perfettamente uguali a generare molecole diverse per creare organi totalmente differenti. Non ha ancora capito niente sui processi che permettono al corpo di trasformare l’energia acquisita con il cibo, in ossa, sangue, unghie, capelli o pelle. Non sappiamo praticamente niente e comunque, anche se lo sapessimo, il ragionamento non cambierebbe neanche di una virgola. Il corpo, che nella sua incredibile complessità è comunque la parte più semplice dell’”io”, è un oggetto, una macchina al nostro esclusivo servizio. Lo usiamo per tutta la durata della vita. E’ fedele, non conosce il tradimento. E’ un esecutore rapido, preciso e attento. Nei limiti imposti dalla natura sappiamo di poterci contare sempre. Non discute mai, esegue quanto gli viene richiesto senza fare domande. A volte segnala difficoltà di funzionamento lasciando ad “altri” la ricerca e l’applicazione della soluzione necessaria. Per se tiene solo la gestione di poche ma importanti funzioni vitali e non, senza le quali il suo funzionamento, e quindi il suo obiettivo primario, sarebbe irrimediabilmente compromesso. A parte la procreazione intesa come logica legge naturale per la continuazione della razza, la sua unica utilità, il suo unico scopo è quello di fornire le informazioni necessarie a relazionarci con l’esterno. Dal suo funzionamento dipende la durata della nostra permanenza su questo pianeta e quindi dovremmo averne una grande cura. Tutte le sere, prima di addormentarci, dovremmo ringraziarlo per tutto quello che, anche quel giorno, ha fatto per noi e continuerà a farlo anche mentre dormiremo. Né più né meno di una qualsiasi forma animale vivente. Se “io” fossi il mio corpo, sarei veramente poca cosa. Sono di più, molto di più. Il corpo è un onesto dipendente del cervello cioè di quella cosa grigia e morbida contenuta nella scatola cranica. Anche se praticamente risulta essere ancora un qualcosa dalla costruzione e dal funzionamento assai misterioso, è sicuramente preposto al controllo, comando e sicurezza di tutto quanto a lui collegato. Praticamente la stessa definizione che chiunque darebbe per descrivere la centralina elettronica di una bella automobile. Detto così è quindi troppo riduttivo e non riflette la forma vivente di cui faccio parte. Esiste un altro termine per descrivere l'insieme delle funzioni superiori del cervello, quelle che ci contraddistinguono e ci rendono unici, quali la personalità, il pensiero, la ragione, l’intelligenza, la volontà… tutte cose che sono a carico della mente. Un animale nasce quasi completo. Oltre al naturale sviluppo fisico, il suo cervello non ha grandi necessità di apprendimento e crescita. Per quanto la natura ha riservato e previsto per quella forma vivente, la sua massa grigia va bene così com’è e non sono necessari, né utili, né richiesti grandi cambiamenti. Sa già tutto quello che gli serve. E’ già programmato a sufficienza. Quel cervello è e sarà sempre il suo cervello, il suo centro di comando, la sua centralina. L’unica forma di crescita sarà legata esclusivamente alla acquisizione di esperienze indispensabili a cibarsi, a procreare e ad evitare pericoli per il corpo. La scimmia vecchia non salirà mai su un ramo marcio, però tutto il branco avrà sempre comportamenti più o meno simili e dipendenti dalla struttura delle loro omogenee centraline di comando. Gli animali nascono come una realtà completa con limitate possibilità di ulteriore sviluppo. L’essere umano, invece, nasce come potenzialità, non come realtà. L’educazione è il ponte tra la potenzialità e la realtà. Il significato originale ed etimologico della parola educazione viene dal latino e-ducere che significa letteralmente condurre fuori, quindi liberare, far venire alla luce qualcosa che è nascosto. Si intende il processo attraverso il quale l'individuo riceve e impara quelle particolari regole di comportamento che sono condivise nel gruppo familiare e nel più ampio contesto sociale in cui è inserito. Giusto ed inevitabile, ma qui sta il problema. Fin dalla più tenera età, la nostra mente viene costretta a subire insegnamenti che la condizioneranno per tutta l’esistenza. Per quanto riguarda le funzioni superiori del cervello, un essere umano è diverso dal suo simile cresciuto in un contesto sociale diverso. Siamo l’unico caso nel quale esseri viventi appartenenti alla stessa specie pensano, ragionano e si comportano in modo diverso a fronte della stessa situazione. In qualsiasi caso, il singolo, è straconvinto di comportarsi bene, di pensare correttamente e quindi di avere ragione. Immaginiamo un grande fiume che ha, sulle opposte sponde, due villaggi abitati da tribù diverse che per comodità chiamo Nord e Sud. Sarà sufficiente una scintilla per far scoppiare una guerra. L’uomo del Nord ucciderà quello del Sud perché, lui ne è convinto, è giusto così. Eppure sarebbe stato sufficiente che fosse nato, o solo fosse stato cresciuto sull’altra sponda per comportarsi esattamente all’opposto! Quindi, utilizzando una sola goccia di onestà mentale non si può non riconoscere che non esiste un comportamento oggettivo corretto della mente ma solo comportamenti soggettivi, molto relativi e quindi lontani da una validità assoluta. E’ assurdo ma è così. Se “io” fossi la sommatoria del mio corpo con la mia mente sarei ancora veramente poca cosa. Sono di più, molto di più. Sono sicuro che esiste un terzo “io”, il più profondo e il più vero, quella “cosa” che è presente, fin dall’inizio, in tutte le molecole e in ogni atomo dell’universo. Questo qualcosa di impalpabile e di immortale, che non so definire con alcun termine, altro non è che l’Energia Universale, la Forza, quella cosa che Dante, nella Divina Commedia, descrive in maniera stupenda come: “L'amor che move il sole e l'altre stelle”. Per semplificare il concetto e trovare un paragone collegato al mondo professionale che meglio conosco, se si chiedesse ad un qualsiasi informatico quali macro elementi compongono un computer, la totalità risponderebbe con due parole: l’hardware ed il software cioè il corpo e la mente. Nessuno pensa né considera né ritiene parte integrante e fondamentale di questa macchina “L’amor che move il sole e l’altre stelle” cioè il software di base, il sistema operativo. Per gli esseri umani, il corpo e la mente sono solo strumenti temporaneamente concessi al vero “io” per sperimentare, nella breve esistenza terrena, quell’enorme elemento distintivo che si chiama consapevolezza. La nostra parte inconscia, il vero “io”, quell’energia vitale primaria che ci guida fin dal nostro primo respiro viene purtroppo repressa fin dalla più tenera età. Il vero “io”, contenitore spirituale della gioia di vivere, viene rapidamente sopraffatto dalla nostra mente e, nel giro di pochi anni, messo in disparte quasi come se fosse una cosa inutile. Con la sola esclusione della “paura” fisica che vedo come il naturale processo di attivazione dell’istinto di sopravvivenza, come si può pensare che le emozioni, cioè l’aspetto più incredibilmente fantastico della nostra vita, siano frutto di elaborazioni cerebrali? La mente elabora, cataloga, calcola, organizza, ricorda, decide l’azione. Quando penso riesco quasi a “sentire” un’attività nella mia testa ma quando provo una emozione mi sento coinvolto nella mia interezza. Tutte le molecole che compongono il mio corpo sono ugualmente coinvolte in questa profonda consapevolezza. Tutte, all’unisono, vivono e trasmettono l’emozione in corso. Questo documento è stato scritto su un notebook (l’hardware) con l’utilizzo di Word (il software). Tutto questo è stato possibile grazie alla presenza del software di base, il sistema operativo senza il quale niente avrebbe funzionato così bene. Il nostro vero “io” è il nostro software di base. Indistruttibile, potentissimo, perfetto e assolutamente uguale per tutti. Ora dovrebbe essere chiaro il motivo per il quale, anche se veniamo al mondo tutti uguali, in realtà siamo, nei comportamenti, molto diversi. Tutto dipende dal software che la società e le condizioni ambientali nelle quali cresciamo, caricano nella nostra mente. Nella nostra attuale società l'uomo obbedisce ad un solo imperativo emozionale: cercare la felicità. L'obiettivo è corretto ma i metodi insegnati ed utilizzati sono totalmente sbagliati. Sembra di vivere una follia collettiva! Continuando così non saremo mai felici perchè passiamo la vita a cercare altrove quello che abbiamo già nel nostro vero "io". Siamo esseri perfetti e non lo sappiamo. Eppure sarebbe sufficiente ragionare su concetti molto, molto semplici e su verità universali per trascorrere una vita serena. Purtroppo, più i pensieri sono semplici più sono difficili da comprendere per le nostre menti contorte. A volte, specie in momenti particolari che tutti, più o meno, attraversiamo nella nostra esistenza, ragionare correttamente pare essere una missione impossibile e, come logica conseguenza, la nostra vita diventa molto pesante. Non dobbiamo certamente fare a meno di una naturale dose di ambizione volta alla realizzazione dei desideri, ma quando questi prendono il controllo della mente, i risultati sono devastanti: annebbiano i ragionamenti di cui saremmo capaci, offuscano le convinzioni che ci hanno accompagnato per anni ed impediscono, in pratica, di valutare oggettivamente una situazione. La mancanza della salute genera danni fisici e psicologici esattamente come un desiderio irrealizzabile, come un’aspirazione impossibile o come una voglia utopistica. L’importante è accorgersene in tempo o avere accanto qualcuno che ha capito il senso della vita e possa provare a spiegare le assurdità legate al concetto di felicità secondo quanto sostenuto dalla cosiddetta “cultura dominante” la quale, volenti o nolenti, è la causa primaria di tutto il male del mondo. La cultura dominante, da secoli, sa perfettamente che una persona può essere gestita meglio solo se la convinciamo a credere che è infelice e che può migliorare la sua situazione. Ben presto ci rendiamo conto che dimostrare infelicità è un modo molto efficace per attirare l’attenzione degli altri, la loro comprensione, la loro disponibilità. E’ un modo, molto facile e molto usato, per essere al centro dell’attenzione ed essere più considerati! Dimostrare l’opposto crea problemi. Un bambino che urla felice, che fa un casino gioioso, che rompe un bicchiere solo per curiosità, genera l’immediato e violento richiamo degli adulti: queste cose non si fanno! Al contrario, se il solito bambino dimostra tristezza, sconforto o dolore, viene subito circondato dall’amore dei presenti. Già da piccoli, quindi, è facile capire come funziona! Verrebbe da pensare che fin dalla più tenera età la cultura dominante abbia una grande invidia degli esseri felici. Alla classica domanda retorica: “Come va?” la maggioranza risponde “Ma, insomma…, mi accontento…” lasciando chiaramente trasparire una infelicità di fondo che genera compassione e partecipazione nell’ascoltatore. La chiacchierata può andare avanti.. Incosciamente tutti sanno che rispondendo, sinceramente, con una frase del tipo “Benissimo, grazie” la conversazione terminerebbe rapidamente in quanto la felicità non è ammessa dal popolo. E’ opinione comune che la felicità sia uno “status” riservato a pochi eletti quasi come un optional estremamente costoso e difficile da ottenere. Questo è falso. La felicità non è un di più, non va conquistata e non va cercata. L’abbiamo di serie fin dalla nascita. Sembra incredibile ma è proprio così. Ogni bambino nasce felice. Ogni bambino nasce innocente e meraviglioso. Ma poi accade qualcosa e tutti quei bambini meravigliosi si perdono; la loro innocenza viene distrutta. La mente comincia il suo sporco lavoro. Tutta la loro felicità si trasforma in disperazione. Osserva un bambino che raccoglie conchiglie sulla spiaggia: è più felice dell’uomo più ricco del mondo. Qual è il suo segreto? Il bambino vive nel momento presente, si gode il sole, il vento sulla faccia, l’aria salmastra della spiaggia, la meravigliosa distesa di sabbia: è qui e ora. Vive solo nell’Adesso! Non pensa al passato, non pensa al futuro. Qualsiasi cosa fa, lo fa con tutto se stesso e intensamente; il segreto della felicità è tutto qui: qualsiasi cosa fai non permettere al passato di distrarre la mente e non permettere al futuro di disturbarti. Perchè il passato non esiste più e il futuro è una chimera raggiunta la quale, ed è ovvio, diverrà un nuovo passato. Sarebbe un ciclo perverso. Vivere nei ricordi o vivere nell’immaginazione significa vivere una vita non esistenziale; e vivendo fuori dall’esistenza ti sfugge l’esistenza stessa e sarai sempre, purtroppo, inevitabilmente infelice. Fin da bambini la società insegna che si può essere felici solo se si esaudiscono desideri, se si raggiungono obiettivi, se si ottiene quello che si vuole. La stupida ricerca dell’Avere e non l’esaltazione dell’Essere. Cercare continuamente di raggiungere l’orizzonte, oltre che poco intelligente, è un cammino sciocco e pericoloso. Non esistono ricchi felici. A volte lo sembrano ma, se provi ad entrare dentro di loro, vedi solo una pianura sterile, un enorme vuoto e una grande infelicità. Eppure, a differenza di altri, hanno tutto quello che vogliono. Ma allora cosa significa felicità? Wikipedia scrive: “La felicità è una condizione emotiva fortemente positiva, percepita soggettivamente, sempre secondo criteri soggettivi.” Una definizione meravigliosa che rafforza il concetto di base: la felicità e l’infelicità sono condizioni che non possono, in alcun modo, dipendere dagli altri ma creiamo noi con la nostra soggettività. La soggettività è il frutto di scelte e convinzioni che crediamo essere personali mentre, in realtà, nascono, si sviluppano e si radicano in noi con il passare degli anni. Le acquisiamo solo vivendo nella società e la società, direttamente o indirettamente, ci plasma a sua immagine e somiglianza. L’ordine è perentorio: dovete essere infelici! I problemi esistono e vanno affrontati continuamente perché sono parte integrante di questo enorme gioco cosmico. A volte siamo preoccupati, spesso pensiamo “cosa devo fare…?”. Praticamente ci proiettiamo in una situazione futura e quindi immaginaria che ci crea paura. Un fantasma mentale che appare reale. Non si può far fronte al futuro. Bisogna chiedersi quale problema ho Adesso, non tra cinque minuti, tra un mese o l’anno prossimo. Adesso! Ora! In questo momento! Anche la frase “Ce la farò” toglie gioia al presente, alla vita in se. Aspettare che accada qualcosa, aspettare la vacanza, un lavoro migliore, aspettare che i figli crescano, aspettare un rapporto personale significativo, aspettare la felicità significa trascorrere la propria esistenza aspettando e credendo che la nostra vita debba ancora iniziare quando, magari, sta per finire. L’attesa è uno stato d’animo che sostanzialmente significa che si vuole vivere nel futuro dimenticando totalmente il presente, cioè la vita. Non si vuole ciò che si ha ma ciò che non si ha, facendo in modo da deteriorare la qualità del presente il quale, ripeto, è l’unica cosa reale ed importante. Bisogna rinunciare a qualsiasi “attesa” e cercare semplicemente di essere e di divertirsi ad essere. Se si vive nel presente non c’è alcuna necessità di aspettare alcunché. Quando qualcuno dice: “Mi dispiace di averti fatto aspettare”, dovremmo rispondere: “ Figurati, non stavo aspettando, ero qui a godere me stesso e tutto quello che mi circonda”. Questa non è una risposta di un mistico orientale ma solo la conseguenza logica di un ragionamento semplice semplice. Dovremmo imparare ad usare meno la mente è molto di più il vero "io" cioè il contenitore dell'Amore Universale verso tutto e tutti, se stessi compresi. |
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