Era il nome del bagno di Viareggio nel quale i miei genitori mi portavano per quindici giorni nel mese di settembre di ogni anno. Si trovava (e si trova) tra il molo e piazza Mazzini e tra il bagno Amedeo e il Paradiso. Per me era il più bello. Mio padre aveva alcuni parenti a Viareggio e, tra questi, la Bruna, ci ospitava sempre nella sua casa vicino alla stazione. Ricordo bene anche il nome della figlia perché, per me, era veramente strano: Amabilia. Nella famiglia c’era anche un religioso, Padre Valmore, che era letteralmente un frate da guerra tanto era sempre arrabbiato con il mondo. Il suo cognome è uguale al mio e, probabilmente, ho preso molte cose da lui. La Curia gli negò il consenso ad andare in terra Santa e lui si rivolse direttamente al Vescovo sostenendo che non aveva chiesto di andare a “donne” ma a pregare nella terra di Dio. Il permesso non tardò ad arrivare. Ho riportato questa breve storiella perché ricordo perfettamente come un giorno, con molta calma, mi spiegò che se vuoi qualcosa e sei nel giusto, non devi mai avere paura di chiedere né perdere tempo a discutere con chi non può soddisfare il tuo desiderio. Al momento non credo proprio di aver capito il significato ma, in seguito, ritengo di averlo messo in pratica! Papà diceva che il mare lo dovevo avere nel sangue e che, avendo tanti parenti pescatori che avevano imparato a nuotare a quattro anni, io non dovevo essere da meno. Con questa scusa, dopo avermi legato ad una corda, mi tirava giù dal molo di Viareggio. Sembra che una volta si facesse così. Non mi ricordo un granché se non che, insieme ai cuginetti viareggini, e seguiti a breve distanza da una serie di parenti su un pattino, riuscivo tranquillamente e senza alcun problema ad andare a nuoto dalla cima del molo fino al mio bagno! Quando non nuotavo mi dedicavo ai castelli di sabbia. Ne ho costruiti pochissimi ma ne ho fatti costruire tantissimi nel senso che riuscivo sempre a far lavorare gli altri perché io preferivo prima reclutare e poi dirigere ed i casi della vita mi hanno sempre permesso questo comportamento. Nei miei primi contatti con “il prossimo” ho sempre trovato bambini molto remissivi e quasi contenti nell’avere qualcuno che si assumeva le responsabilità. Anche se avevo solo quattro o cinque anni, a me piaceva. I pochissimi che ho costruito sono quelli seguenti alla perdita del “comando” avvenuta per pura vigliaccheria (la mia) nel non voler sfidare un bambino emergente. Le sfide, specie tra i maschietti, erano il pane quotidiano, a volte vincevo, altre perdevo. L’importante era partecipare? …neanche per sogno! Per me l’unica cosa importante era vincere! Arrivare secondo non mi dava alcun vantaggio né gratificazione. Non vincere generava in me l’immediata ricerca dell’errore commesso e che non avrei dovuto più fare per riuscire a vincere la prossima volta. Confrontandomi con gli altri mi accorsi che esistevano tre categorie di bambini. Quelli che non amavano combattere e che erano la maggioranza, quelli che indipendentemente dall’avversario combattevano comunque e che erano la minoranza e quelli che combattevano solo se ritenevano possibile la vittoria. A me sarebbe tanto piaciuto appartenere alla seconda ma, purtroppo, facevo parte della terza categoria. Ormai ero segnato, nessuno è perfetto!
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