Dalla finestra della camera vedevo tutte le finestre del palazzo di fronte e, da una di quelle, il mio amico Carlo spesso mi chiamava urlando il mio nome. Anche quella volta sentii chiaramente il richiamo. Il mio amico era famoso nella piazza, non tanto per merito suo quanto per la professione di sua mamma che, a detta delle altre, faceva un mestiere per il quale veniva spesso appellata come “donnaccia”. Lo strano era che, a fronte di un evidente disprezzo sul viso delle mamme che pronunciavano quella parola, gli uomini grandi dimostravano un singolare e diverso interesse. Non riuscivo a capire né, forse, ero in grado di riuscirci. Quella mattina di domenica era appena rientrato dalla Santa Messa ma, dopo il richiamo, traversata la piazza, salii le scale ed entrai nella casa di Carlo. L’ingresso era su una grande cucina davanti alla quale si trovava un robusto tavolo rettangolare con molte sedie attorno e la classica credenza lucchese sulla parete di fianco. Il modesto arredamento della stanza era completato da una tenda attraverso la quale si intravedeva la camera da letto. Lei era lì. Abbastanza vecchia (avrà avuto una trentina d’anni), formosetta e cicciotella, non molto alta, molto distinta, con i capelli lisci, neri, curati e tagliati a caschetto. Non ricordo se mi salutò o mi rivolse la parola. Mi sembrò essere assolutamente incurante della nostra presenza e continuava a rifare il letto. Carlo cominciò a raccontare chissà cosa ed io, chissà perché, riuscivo ad ascoltarlo con difficoltà perché la mia attenzione era al di là della tenda. Sono certo che feci di tutto per mettermi in posizione tale da stare di fronte sia al mio amico che alla stanza dove si trovava la “donnaccia”. Mi sentivo che sarebbe successo qualcosa che avrebbe potuto cambiare tutta la mia vita ed ebbi ragione. Improvvisamente la Signora si tolse la vestaglia e restò in mutandine e reggiseno bianchi, poi, seduta sul letto iniziò lentamente ad infilarsi le calze, quelle con una riga nera dietro, fermando ognuna ad uno strano apparecchio legato intorno alla vita e dal quale scendevano alcune strisce. Si girò più volte su se stessa dandomi la possibilità di vedere bene tutti i lati. Si infilò due scarpe con un tacco altissimo ed un vestito sopra al quale mise una giacchetta con le maniche corte. In quel momento mi accorsi che il suo sguardo incrociò il mio. Non ricordo di aver più provato un imbarazzo simile e forse, per la prima ed ultima volta, diventai rosso di vergogna. Non so perché ma sono sempre stato convinto che Lei sapeva che la guardavo. Salutò e se ne andò. Rimasi lì come un imbecille a far finta di ascoltare suo figlio ma, l’unico mio desiderio era quello di andare a pensare da qualche parte. Non fu difficile andarmene dove volevo e quel giorno decisi che mi piacevano e mi sarebbero sempre piaciute le donne anche se, per il momento, non avrei saputo assolutamente cosa farci.
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