Due squadre, una posizionata a sud e l’altra a nord e, nel mezzo del campo, ben in vista e piantato su uno dei tanti cumuli di macerie, un manico di scopa con funzioni di bandiera. Avrebbe vinto la squadra che per prima fosse riuscita a prendere quel feticcio sventolante. Avanzare o indietreggiare dipendeva dal coraggio che indubbiamente serviva per evitare le violente sassate che ogni squadra lanciava sugli avversari scoperti. Anche se scagliavamo solo sassi di dimensioni relativamente piccole, ogni volta che arrivavano sul bersaglio facevano male e quando uno di questi prese in pieno la nuca di Cesarino furono dolori. Cadde in terra come un burattino al quale sono stati tagliati improvvisamente tutti i fili. Restò su un fianco, svenuto e con quel piccolo ruscello rosso che sgorgava dalla testa e scendeva sulla faccia. I parenti arrivarono di corsa e i tentativi di rianimazione sembrarono tutti inutili. L’ambulanza si fermò ai margini del “campo di gioco” e Cesarino fu caricato su una barella e portato via a sirene spiegate. Cercare il colpevole fu inutile. Lo eravamo tutti. Dopo due giorni, con un grande cerotto che nascondeva i punti ricevuti sulla testa, era nuovamente con noi. A sassate non abbiamo più giocato.
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