Gli anelli della vita


Loro due si chiamavano Franco Salemi e Giulio Rohl. Noi tre arrivavamo sul pratino molto presto e quindi in attesa dell’orario “normale” avevamo preso l’abitudine di andare a giocare alla stazione ferroviaria e, più precisamente, nello scalo merci. Non era difficile trovare, su uno dei tanti binari morti, un carrello di quelli che scorrono sulle rotaie facendo muovere il bilanciere che è installato sopra di esso. Il gioco consisteva nel lanciare il vagoncino a forte velocità e riuscire a fermarlo un attimo prima di sbattere contro i respingenti finali del binario morto. Andavamo in su e giù come pazzi ma, ogni tanto, eravamo anche costretti a scappare velocemente a causa dell’arrivo di un guardiano. Un giorno, stranamente, trovammo il carrello parcheggiato sull’ultimo binario di sinistra che terminava in una zona circondata da alti muri. Il pensiero comune fu che, considerato il fatto che c’erano questi muri, sarebbe stato praticamente impossibile essere visti e quindi si sarebbe potuto giocare senza alcuna preoccupazione di essere scoperti. Quando il carrello urtò per l’ennesima volta sui respingenti in fondo al binario morto iniziammo lentamente a riportarlo indietro e fu allora che, a non più di una ventina di metri da noi, apparvero due poliziotti. Eravamo in trappola. Circondati da muri, l’unica via di fuga era occupata da quei due che avanzavano verso di noi.
“E’ tanto che vi diamo la caccia e oggi vi abbiamo beccato!” disse uno di loro tenendo Giulio per un braccio. Franco mi guardava ed io non trovai di meglio che abbassare gli occhi aspettando la giusta punizione. Tirarono fuori un taccuino e dissero:
“Avanti, dateci i vostri nomi, cognomi e indirizzi. Scriveremo ai vostri genitori”. Conoscendo mio padre pensai subito alle botte che avrei preso. Se mi picchiava per niente, questa volta avrebbe avuto anche i motivi per farlo. Mi tirarono per un braccio e dissero:
“Te, come ti chiami?” e, subito dopo:
“Dove abiti?”.
Date le mie risposte mi dissero che potevo anche andarmene ma io, fatti pochi passi, mi fermai ad aspettare la fine dell’interrogatorio degli altri. Fu la volta di Franco.
“te, come ti chiami?”.
Risposta “Giovanni Franceschini”.
“Dove abiti?”.
Risposta “Via della Zecca al numero 30”.
Cristo aveva detto una serie di bugie! Stavo ancora pensando alle falsità appena ascoltate che, altrettante, uscirono dalla bocca di Giulio! Durante il rientro verso il pratino nessuno dei tre aprì bocca. Ci guardammo in silenzio più volte e gli occhi parlarono molto tra loro. In quel tratto di strada capii che quello che pensi essere giusto in assoluto, a volte non lo è proprio per niente. Cosa ci ho guadagnato, quella volta, ad essere sincero? Avessi mentito anche io, l’unica variante a quello che sarebbe successo in futuro, sarebbe stata la non consegna di quella lettera che invece, immancabilmente, arrivò dopo qualche giorno a casa mia con le dure conseguenze che ne derivarono.