Non ho mai sopportato le suore e conosco il motivo. Ho avuto la sfortuna di frequentare quelle sbagliate, quelle che probabilmente non avrebbero voluto diventarlo, quelle che probabilmente sono state costrette ad esserlo e che quindi riversavano sugli altri la loro grande insoddisfazione. L’asilo si trovava in fondo alla “scesa” del baluardo Mazzini. I miei lavoravano tutto il giorno e non ho mai saputo perché, né per quale motivo, in quel periodo, non avrei potuto essere lasciato ai miei nonni, fatto sta che intorno ai cinque anni mi portarono in quel luogo di perdizione. Ricordo stanze immense, larghissime ed altissime e queste “donnacce” tutte nere, brutte e cattive che sfogavano su bambini inerti la loro cattiveria. Obblighi e ordini erano il pane quotidiano. Le imposizioni sfioravano la violenza se non il sadismo. Sembrava godessero nel farci soffrire. Niente di particolarmente grave ma un bambino deve essere trattato da bambino, con amore e gentilezza. Quasi tutti ci lamentavamo con i nostri genitori ma, evidentemente, le argomentazioni delle suore erano migliori delle nostre. Non venivamo creduti e quindi nessuno, che io mi ricordi, venne ritirato. Ho ancora presenti le prime spiacevoli sensazioni di solitudine ed impotenza di fronte all’arroganza del potere. Tutti i giorni si piangeva, ci si lamentava e si subiva. Dopo pranzo, consumato su nerissimi banchi singoli, venivano chiuse le finestre e, messe le braccia conserte, dovevamo appoggiarci la testa e dormire. Quando uno di noi protestava veniva ripreso a parole e, se continuava a “disobbedire”…. Nella semioscurità della stanza arrivarono in tre, presero di forza il mio vicino di banco, lo infilarono dentro un sacco marrone e, letteralmente, lo trascinarono via. Fu una scena terribile anche perché amplificata dalle implorazioni del mio amichetto che provenivano dall’interno di quel sacco schifoso. In quel momento capii che ne avevo abbastanza e decisi che me ne sarei andato. La mattina, prima di pranzo, ci tenevano nel cortile che confinava con la strada. Il portone veniva aperto solo quando arrivava il lattaio e, quella mattina, finalmente arrivò. Fu solo questione di un attimo. La suora aprì e fece entrare quell’uomo. Mentre lo accompagnava all’interno lasciava sempre accostato il portone d’entrata tanto era sicura che, in quel minuto, noi non ci saremmo neanche avvicinati all’uscita. Si sbagliava. Dopo aver fatto mezzo giro di mura arrivai piangendo a casa e raccontai tutto ai miei nonni che avvisarono subito mia mamma. Lei arrivò contemporaneamente alla polizia. Nella sala ricordo i miei nonni, mia mamma che mi teneva in braccio, i due “gendarmi”, la suora “importante” e mio padre che infine disse:
“Sentite. Mio figlio non si muove di qui. Se non vuole rientrare all’asilo ci sarà un motivo. Troveremo un’altra soluzione”.
Grazie papà.
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