Fino ad una certa età non si hanno chiare alcune differenze. Per la mente di un ragazzino tutti sono uguali, nel senso che quello che ho io hanno sicuramente anche gli altri e, allo stesso modo, riesce difficile, se non impossibile, immaginare “tenori” di vita molto diversi da quello che viviamo in prima persona. L’aggravante era costituita dal fatto che, vivendo in un rione, tutti conoscevano tutti e tutti eravamo stati in casa di tutti. Le differenze erano minime e, anche ci fossero state, nessuno di noi ci avrebbe potuto fare caso fino a che, un giorno, il Faldini mi invitò a casa sua per giocare con il suo trenino. L’indirizzo era chiaro e non fu difficile, a piedi, arrivare alla prima villa a sinistra sulla curva della circonvallazione che, da Sant’Anna porta verso il Cimitero. Arrivarci fu normale ma, appena davanti al cancello mi cominciai ad impressionare. Non solo non avevo mai fatto caso a come è una vera villa da vicino, ma rimasi colpito anche dall’accuratezza con il quale era tenuto tutto il giardino intorno, dai fiori e dalla splendida automobile che si intravedeva in fondo ad una stradina privata. Dopo pochi secondi che avevo suonato il campanello d’ottone si aprì la porta d’ingresso e un signore vestito da cameriere venne verso di me e, molto gentilmente, mi chiese:
“Desidera?”.
Come “Desidera?”. Ma dove sono? Con tutta l’eleganza e la disinvoltura che potei recuperare in quegli attimi risposi:
“Sono un amico di Franco, mi sta aspettando…”.
Aprì il cancello e disse: “Prego, mi segua”.
Ma dove pensava volessi andare? A casaccio di qua o di là oppure a pestargli i fiori?
Le sorprese erano appena all’inizio. Entrati in casa riuscii a vedere solo per un attimo un ambiente incredibilmente bello ed elegante perché il cameriere (che la famiglia chiamava Augusto, ed in realtà era il maggiordomo) aprì una porta a vetri e, invitandomi ad entrare disse:
“Si accomodi, vado ad avvisare il Signorino Franco”.
Si, disse proprio “il Signorino”.
Franco arrivò quasi subito e mi indispettì il fatto di non avere avuto il tempo materiale per guardarmi attorno in quella “sala d’attesa” piena di mobili che, fino ad un minuto prima, non potevo immaginare esistessero, tanto erano belli.
“Ciao, vieni con me”.
Ubbidivo a comando ed andavo dietro a chiunque come un automa e, come tale, passai attraverso stanze che mi apparvero immense e fatate. Credevo di essere arrivato in casa del marito ricco di Cenerentola. Circondato da tendaggi teatrali, attraversai sale, vidi divani e camini (tutto al plurale), incontrai una cameriera e salii una scala semirotonda larghissima. In fondo all’ennesimo corridoio si apriva una stanza grande come metà della mia casa e, metà di questa, era totalmente occupata da un plastico ferroviario. Era vergognosamente fantastico. Anche lì non sapevo cosa e dove guardare. Avevo da poco ripreso conoscenza quando, da una porta secondaria, entrò un carrello (probabilmente d’argento) con dietro la stessa cameriera che avevo incontrato prima.
“Tea e biscotti per i Signorini” .
Ma siamo diventati matti? Quando facevo uno spuntino pomeridiano, se tutto andava bene, mangiavo pane e olio! Volutamente, ma anche, per non far provare al lettore le stesse sensazioni che ho provato per un paio di ore rinchiuso in quella gabbia dorata, concludo solo ricordando che, prima di andarmene, Franco insisté a lungo per regalarmi uno dei suoi vagoni che ovviamente accettai. Avevo capito che non siamo tutti uguali e, anche se non ricordo di aver provato invidia, non ho mai avuto il coraggio di contraccambiare l’invito. Quella volta, forse, sono stato maleducato ma quando sai di essere così inferiore la cosa più saggia è rientrare al più presto nel proprio mondo. Sapersi accontentare, diceva sempre il mio papà, è la chiave della vita. A volte però è una chiave pesante….
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