Erano un simbolo. Mi piacevano sempre di più. Anche se mancava poco, non avevo ancora l’età per prendere la patente. Il motorino non l’avevo potuto avere e, visto come stavano le cose, non potevo certamente pensare di poterne mai possederne una. La caratteristica principale di quella gioventù erano i sogni fini a se stessi e i desideri sviscerati per tutto quello che non si poteva avere. Quando ero bambino non ero riuscito ad avere neanche l’automobile a pedali ed il fatto mi bruciava ancora parecchio. Dovevo averle nel sangue. Per me era assolutamente entusiasmante il rumore del motore, qualunque rumore di qualunque motore. Era affascinante pensare che dalla materia inerme l’uomo riusciva a costruire un qualcosa che emetteva suoni a volte migliori di certa musica. Avete mai sentito le note che emettono alcuni motori in grado di arrivare a settemila giri? Sublime! Lo stesso aggettivo poteva essere usato anche per i sedili reclinabili. Erano un optional ma pensai che, indipendentemente da quale auto sarei (prima o poi) riuscito a comprare, avrebbe sicuramente avuto due splendidi sedili reclinabili. In città erano veramente pochi i giovani proprietari di auto e quei pochi si ritrovavano al Caffè delle Mura. Anche se, in un modo o in un altro, sarei comunque riuscito ad entrare in quel gruppo, avevo la fortuna di essere già un buon amico di uno che era dentro: il Faldini. Cominciai a frequentare quell’ambiente, parecchio chic, arrivando sempre a bordo della sua Mini Cooper 1300 verde con il tettino bianco. Che macchine ragazzi! Provo a ricordare. Il Barsanti aveva una Abarth 850 Nuerburgring, un’altra Abarth, ma 595, ce l’aveva un ragazzo di Porcari. il Cecchini aveva una Jaguar E, nera come quella che poi avrebbe avuto anche Diabolik. Il figlio del re della birra, quello che aveva un cognome tedesco, aveva una Porche SC e Fabrizio, figlio di un famoso produttore di tortellini, arrivava spesso con la Ferrari di papà. Sapevo di essere un pesce fuor d’acqua e non era difficile rendersene conto. Entrai nel giro e cercai di restarci il più possibile. Le differenze culturali, di obiettivi ed economiche non tardarono a farsi sentire e, esattamente come recita il detto “ubi maior minor cessat”, essendo il “minor” mi ritrovai risucchiato nel mio mondo quasi senza rendermene conto. Ai posteri avrei comunque potuto dire: “io c’ero”.
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